La via dei Simboli
Pubblicato su "Costruire" n. 182, Luglio-Agosto 1998 (pp.124-127)
 


 
 

 Antonino Saggio

Alcune opere dell’architettura recente impongono una riflessione.
Frank Owen Gehry ha da poco ultimato il Museo Guggenheim di Bilbao. Gehry ama Utzon e la Sidney Opera House. E su Jørn Utzon, nato nel 1918, vi è un ritorno di attenzione. Il direttore di Casabella   lo candida giustamente per un grande riconoscimento internazionale e ne sottolinea l’urgenza con la pubblicazione di un libro di Françoise Fromonot nella collana “Documenti di architettura”. Utzon a sua volta deve il successo al concorso di Sidney alla chiaroveggenza del giurato Eero Saarinen, autore di molte opere, tra cui il Terminal della Twa al Kennedy di New York. Gehry ama anche l’espressionismo di Scharoun della Philarmonie di Berlino, Ronchamp di Le Corbusier e la famosa macchina strepitante del Mummers Theater di John Johansen.
Nei primi anni Settanta una giuria audace dà ai trentenni Piano & Rogers la costruzione di un centro polivalente nel cuore di Parigi, il celeberrimo Beaubourg. Oggi Piano ha appena inaugurato un Museo della Scienza come una nave incagliata nelle banchine di Amsterdam. Un’altra Arca era stata creata a Londra per la società Seagram da Ralph Erskine che aveva anche eretto un muro ondeggiante alto dieci piani ? The Byker Wall ? che fa segno, simbolo, paesaggio nella ricostruzione di una parte di Newcastle in Scozia.
Cosa succede? Perché ci interessa questo filo che parte da Sidney e arriva a Bilbao?

Oltre i divieti
Cominciamo da Utzon, un architetto la cui grandezza è tale che ancora non è stata del tutto metabolizzata.
Utzon è l’unico architetto che in quel lontano 1956 ebbe l’intuito, l’intelligenza e il coraggio di fare del grande Auditorium un simbolo.  Ma non era il simbolo una delle parole tabù del movimento moderno?. Vediamo come è rientrato in circolo.
L’architettura moderna, almeno nel suo filone sassone tra Gran Bretagna e Germania, si è sviluppata attraverso una predilezione per la chiave minore, frammentaria, libera nelle forme e negli assemblamenti che era tipica dell’edilizia minuta dei borghi, dei villaggi, dei tessuti medioevali. Questa cifra divenne centrale per innescare la ricerca che rivalutò l’artigianato e la sua etica e poi, via Hermann Muthesius  e il Deutsche Werkbund, si incanalò nel Bauhaus. Cioè nel primo movimento maturo nella storia in cui la società industriale trova, a più di cent’anni dalla nascita, risposta articolata e polivalente : sul piano estetico, attraverso l’astrazione, la trasparenza, la dinamicità, sul piano etico-funzionale, con un’aderenza oggettiva ai nuovi bisogni “dal cucchiaio alla città”, sul piano costruttivo e tecnologico.
Come sottolineò Nikolaus Pevsner il percorso da William Morris a Walter Gropius   valorizzò la cifra spontanea e vernacolare, ma rimosse completamente, quasi come non esistesse, l’altra chiave, l’altra dimensione del Medioevo: quella legata alla costruzione delle grandi cattedrali, da Chartres a Notre Dame da Rouen a Salisbury, e allo sforzo di simboleggiare, attraverso la propensione verticale alla divinità, la volontà di una città di rappresentarsi in quanto collettività.
“A noi non interessano i monumenti”, parafrasando Frank Llyod Wright, sostenevano gli architetti moderni, e avevano ragione. Infatti la parola Monumento tra le due guerre, era usata per esprimere la potenza di uno Stato, spesso dittatoriale, che intendeva magnificare l’autorità, il comando, la gerarchia.
La Mosca di Stalin, le scenografie di Hitler, la nuova romanità di Mussolini, ma anche i parlamenti classicheggianti della nuova Finlandia o la sede delle Società delle Nazioni a Ginevra.
Gli architetti moderni, quelli dei Ciam  per intenderci meglio, avevano problemi ben più stringenti da risolvere (la casa per tutti, un linguaggio secco, industriale e astratto, l’utilizzo dei nuovi materiali e delle nuove scoperte costruttive, l’urbanistica e gli insediamenti) per dilettarsi con queste parate.
Dire a noi non interessano i monumenti, fu storicamente sacrosanto, anche se si doveva attaccare un architetto come Giuseppe Terragni, che già negli anni Trenta e sostanzialmente unico in tutto il fronte moderno, riuscì a dimostrare che era possibile dare un’aura monumentale e simbolica a un edificio senza ricorrere allo strumentario del passato ma attraverso un’ibridazione pericolosa quanto magistrale. Giuseppe Pagano, il campione italiano degli architetti moderni, stigmatizza la Casa del fascio di Como, anche se in cuor suo sa che Terragni è un genio. Ma in quel momento, quell’opera era un diversivo: solo sfiorare il tema della rappresentatività avrebbe contribuito a innescare un arretramento (come il rinsaldarsi dell’asse Speer-Piacentini e la costruzione dell’E42 a Roma dimostrò).
Ma torniamo ad Utzon. Perché questo giovane architetto, aveva 38 anni quando progettò Sidney, dieci anni in più di Terragni quando nel dicembre del ‘32 disegnò la sua Casa del Fascio, riesce a fare uno scarto di questa portata?
Diciamo per la compresenza di almeno quattro fattori.
Prima di tutto Utzon è un nordico. E nell’architettura nordica la presenza del Monumento è linfa vitale: non astrazione illuminista del potere, ma del matrimonio tra uomo e natura. E Gunnar Asplund lo insegna senza il minimo dubbio.
In secondo luogo, Utzon ha lavorato con Aalto. Da giovane, quando ha solo un repertorio neoclassico, Aalto tenta di agganciare i suoi edifici al paesaggio; negli anni Cinquanta, in progetti come il Politecnico di Otaniemi ma anche il municipio di Säynätsalo, sembra intuire che l’architettura può anche rappresentare, ma si ferma sul limite e anzi in qualche caso cade in un neo-accademismo di maniera.
La terza regione è che in Utzon, velista come Piano e Erskine, c’è un interesse verso le forme naturali del volo e del movimento.
Infine, Utzon è un architetto interessato all’uomo nelle sue diverse manifestazioni sociali, mai alla imposizione della propria griffe. Sa che opere diverse per scala e programma debbono avere risposte diverse. Per cui quando fa un gruppo di case (a Fredensborg nel 1962) è la celebrazione dell’individuo e delle sue diverse aggregazioni che esalta con una architettura spontanea e popolare, quando fa una chiesa in campagna (a Bagsærd nel 1976) la tratta come un silos cubico in lamierino per rivelare solo all’interno un magico spazio fluido, quando deve fare la nuova sala di concerti di Sidney capisce che deve essere il simbolo di un continente.
E nonostante la fatica, lo stress, i sabotaggi e i tradimenti legati all’impresa ci riesce. L’opera è un simbolo, forse il primo simbolo assoluto che l’architettura moderna è riuscita a creare.
Vi si riconosco gli abitanti, i visitatori, la città, il continente. È un’opera da questo punto di vista monumentale, ma che niente ha a che spartire con gli aspetti propagandistici, retori e bolsi del potere. È un monumento di una collettità che guarda al resto del mondo e che al domani si proietta con slancio.
Gehry, quarant’anni dopo quel progetto, fa Bilbao. Molte parole possiamo usare per quest’opera. Per esempio “traiettoria”, perché il messaggio della plastica futurista e la conquista dinamica dello spazio vi si afferma, oppure “luna meccanica’, perché il grande museo rifrange ludicamente la luce a tutte le ore, oppure “pelle e spazi”, perché l’opera rompe la meccanica corrispondenza tra interno ed esterno, riuscendo per questa via ad ottenere il suo sbalordivo funzionamento, e altre ancora. Ma una parola è la vera chiave in questo contesto.

Cattedrale
Innanzitutto Gehry capisce che il nuovo monumentalismo è un fatto civico, collettivo, della gente. Mai di un individuo o di un magnate. “Gehry è calamitato dal clima di rinascita del XII e XIII secolo” ha scritto Bruno Zevi  “Persuaso che si possa contrapporre al caos (e alle disquisizioni sul caos) un ordine intrinseco da manipolare, pretende che l’architettura trascini emotivamente” Gehry adora il Romanico e “crede che l’epoca degli architetti eroi, di Wright e di Le Corbusier, sia esaurita: «questo è un tempo in cui gente più numerosa si mescola assieme, per aiutarsi reciprocamente e far funzionare le cose»”
Sceglie, è lui che sceglie l’area del progetto, una intersezione urbana. Un ganglio caotico tra ferrovia, fiume, ponte, banchine. È una tipica area dismessa che però si può agganciare alla rivitalizzazione del lungo fiume che l’amministrazione vuole.
In questa intersezione Gehry inserisce i suoi corpi. Ma non sono le ali del gabbiano di Utzon che calano nel promontorio, ma una macchina che si aggancia al contesto come forse nessuna architettura aveva mai fatto. L’articolazione dei corpi fa strade, banchine, percorsi, entrate e accoglie i flussi. E la gente vive tutto lo spazio pubblico, ci va di giorno e di notte, genitori con bambini, turisti, vecchi operai con il basco e teen-ager con i pattini. Insomma la sua architettura forma e conforma l’ambiente come la cattedrale gotica che intesseva attività e formava con le sue diverse strutture la piazza principale, quella adiacente del mercato, gli edifici, le zone per le manifestazioni e gli eventi.
Ma se questa lettura può apparire forzata, Gehry nella manipolazione dei volumi non lascia dubbi. A partire da un atrio centrale che spinge il visitatore a guardare all’insù e strabiliarsi come una volta si faceva con le ogive e le vetrate, innesta un grande corpo oblungo lungo più di 100 metri. È la navata che si insinua sotto il ponte, e al di la di questo, si alza un volume apparentemente arbitrario. Una specie di scultura altissima a forma di forcella aperta.
Segno tanto inutile quanto indispensabile, come il campanile di Giotto la torre di Gehry annuncia l’edificio a chi giunge lungo le banchine dal centro della città. Aspettiamo che vi si monti un raggio laser che rintocchi l’arrivo del nuovo millennio.
Ecco che con Gehry si richiude il circolo. Nel movimento moderno è rientrata la cattedrale, è rinata la possibilità di fare un’architettura anche simbolica, anche rappresentativa, anche monumentale. E queste parole non si associano alla magniloquenza accademica del potere, ma alla vibrazione di una società locale e globale, che impone un pellegrinaggio per celebrare la nuova religione laica della cultura. Del Medioevo 140 anni dopo la Casa Rossa di Philip Webb per William Morris, la nuova architettura ha riconquistato anche il valore civico e rappresentativo.

Una domanda per concludere
Questa nuova tensione rappresentativa, civica, collettiva in una parola simbolica, cosa ha a che vedere con la tendenza alla metaforizzazione che investe buona parte dell’architettura contemporanea d’avanguardia e di cui abbiamo già parlato a proposito del Paesaggio e dell’Informatica (Costruire 12/97 e 5/98)?
Per rispondere paragoniamo due opere di Piano, la prima e l’ultima o quasi.
Il Beaubourg è un’enorme scatola meccanica-industriale. Semovente, (almeno nell’idea iniziale) e cablata, ma comunque meccanica: una scatola-fabbrica.
Il nuovo museo di Amsterdam invece è prima di tutto un edifico metafora (è dichiaratamente una grande nave) e “secondariamente” è anche un edificio che funziona.
Che cosa è avvenuto in questi trent’anni?
È avvenuto che il mondo, e gli architetti se ne stanno rendendo conto, è mutato e che siamo nell’epoca delle informazioni, nel pieno della Rivoluzione Informatica. E l’epoca informatica funziona non più per messaggi assertivi, causa effetto, ma per messaggi metaforici, traslati. Un edifico non è più buono solo se funziona ed è efficiente, insomma se è una macchina, ma deve dire e dare di più. Tra l’altro quando serve, anche simboli. Daniel Libeskind lo fa a Berlino nel suo straziante Museo-monumento all’Olocausto, come un muro spezzato e zigzagante. A Roma il danese Kay Fisker ha eretto l’accademia del suo paese come un monastero che sa dialogare con San Pietro. Antoine Predock e Abraham  Zabludovsky ripensano al sacro dialogo tra paesaggio e costruzione dell’architettura mesoamericana. .Gehry, Libeskind, Piano sono arrivati in alto anche grazie a Scharoun, Johansen e Erskine. Utzon è stato il grande e geniale precursore.
Ci sono anche altre vie: quella da Ledoux a Le Corbusier, quella dell’edilizia cittadina da Piacentini a Aldo Rossi, quella che da Louis Kahn via Mario Botta arriva a Tadao Ando, quella algida e sola di Ludwig Mies van Der Rohe, quella che dal Crystal Palace arriva all’High Tech o quella che ragiona su Las Vegas. Sono strade diverse, altre vie, altre storie per erodere un tabù. Ma quella da Utzon a Gehry a me pare la più felice.
Antonino Saggio