38. Il pendolo di Tafuri
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

L'oscillazione tra progetto e insegnamento, teoria e prassi, filosofia e politica, filologia e critica si è interrotta. Ventitrè libri, spesso segnati sin dal titolo da una ammissione di difficoltà, da una consapevolezza di crisi: Teorie e storia, Progetto e utopia, Soggetto e maschera, Sfera e labirinto, Armonia e conflitti. Pochissimi come Manfredo Tafuri hanno contribuito a demolire certezze, miti, speranze rivelando le debolezze degli architetti nell'aver creduto in un mito borghese, in una riforma socialdemocratica, in un regime risolutore, in una ricostruzione paesana, in un centro sinistra di piano. Per Tafuri l'opera non indicava soluzioni o destini (al massimo utopie). Era significante se rappresentava un problemastorico.
Apparentemente scherzando, diceva che per essere buoni architetti bisognava essere un poco stupidi. Guardava alla costruzioni con il peso della filologia, della filosofia, della cultura, ma anche con una vera partecipazione: un adulto che riconosce nelle traballanti speranze del progettista-bambino il motore della vita.







Pagine intense esono quelle dove questa contraddizione (la consapevolezza della ineludibilità delle crisi e la partecipazione ai tentativi degli architetti) si fa lampante: Piranesi, l'ultimo Le Corbusier, Giulio Romano, Mies Van der Rohe, Louis Kahn e, naturalmente, Ludovico Quaroni.

Tafuri inizia come architetto. È assistente del corso di Quaroni e membro dell'Associazione urbanisti architetti, un gruppo di neo laureati attivo nell'elettrico clima della Roma anni Sessanta. Vince nel 1966 (a 31 anni) la cattedra di Storia dell'architettura grazie alla stima di Bruno Zevi che all'indomani della scomparsa ha ricordato le "calzanti interrogazioni" dei suoi libri sin "negli stessi titoli pendolari". Nel 1968 Tafuri si sposta a Venezia per dirigervi l'Istituto di storia e qui richiama neo-laureati o studiosi romani, valorizzando al contempo i più vitali e intelligenti studenti veneziani. È impegnato attivamente nelle file del Partito comunista. In questo clima si cala in una "critica ideologica" della architettura che, pur facendone tesoro, ribalta gli assunti del critico marxista Arnold Hauser. Non una critica e una storia che riveli come le componenti strutturali (economiche in primis e poi filosofiche, politiche, religiose eccetera) hanno influenzato la creazione dell'arte, ma all'opposto: come gli architetti hanno cercato di inserirsi nelle ragioni economiche e ideologiche del mondo, nei suoi conflitti e speranze. Lo zoccolo duro di questa impostazione è rappresentato dai due libri Teorie e Storia (1968) e Progetto e Utopia (1969, e 1972) ma le ricadute si sentono nella Storia dell'architettura contemporanea (con Dal Co del 76) e sono presenti nella lettura della città americana, condotta con gli altri colleghi veneziani (1973), nel saggio sull'architettura dopo il 1945 (scritto per l'Arte moderna di Franco Russoli e poi ampliato e approfondito alla sola architettura italiana).

Contemporaneamente, vivo è lo studio rivolto al passato che era iniziato sin da giovanissimo (architetture sotto Federico II, saggi su Borromini, sull'architettura dell'Umanesimo, sul Manierismo), ma è soprattutto nello studio di singolari vicende come la Via Giulia a Roma (1973) che si rivela il suo approccio. Vicenda simbolo, "caso storico" appunto, Via Giulia è un problema da indagare come lo è il caso dei New York Five che si svolge sotto i suoi occhi. Tafuri non scopre, non rivela, non è "un cacciatore di tarfufi". I New York Five vivono contraddizioni aperte di un'architettura che ha smarrito la sua utopia sociale e si trova con le apparenze autoreferenziali di "architetture di carta".

La scrittura di Tafuri ha grande forza nel capire le scelte dell'architetto, conservando al contempo la propria distanza critica, cioè storica. Basti pensare alla definizione di Eisenman come terrorista formale, di Meier come meccanico delle funzioni, di Graves all'insegna della polisemia. Tutte definizioni, tra l'altro, profetiche: se si pensa all'evoluzione dei diversi autori nei vent'anni successivi.

Il pendolo di Tafuri, allora, oscilla non per un intellettuale autocompiacimento ma per cercare il punto in cui le contraddizioni emergono.

Con la Architettura italiana 1944-1981 (in volume ampliato sino al 1985) Tafuri sembra chiudere i suoi interessi per la contemporaneità. Scrive su Francesco Purini, su Vittorio Gregotti, su quell'edificio emblematico che è il Corviale di Mario Fiorentino, ma il suo lavoro si concentra sempre più nello studio del Quattrocento e soprattutto del Cinquecento (Venezia e il Rinascimento, Sansovino, Giulio Romano, Francesco Di Giorgio, Alberti eccetera). L'ultimo libro solo suo si chiama Ricerca del rinascimento(1992).
Tafuri negli ultimi anni abbandona la contemporaneità. Alberto Asor Rosa, con Cacciari direttore di "Contropiano" nei primi anni Settanta, così lo spiega nel  numero unico di "Casabella" uscita a meno di un anno dalla morte : "Esiste un nesso preciso tra la critica della ideologia, all'origine tutta politica, - lo sbaraccamento implacabile, dal presente e dal passato, di tutte le sovrastrutture di auto-illusione e di auto-mistificazione, - e il pieno dispiegamento di una profonda, irrinunciabile e straordinaria vocazione storica. Ma è esattamente ciò che intendo dire: la "critica dell'ideologia" precede e determina la scoperta della "filologia", la rende non solo possibile ma necessaria. Si pensi a questo dato: quando ogni velo è caduto, ciò che resta è studiare, conoscere e rappresentare i meccanismi reali, per cui conviene usare nella maniera più raffinata possibile gli strumenti di un'indagine (entro certi limiti, ovviamente) obbiettiva. È il totale disincanto che fa il grande storico". È una affermazione dura - il disincanto - che sembra velare una valutazione estesa a tutta una generazione.

L'ultimo Tafuri sembra quasi smarrire la speranza, la consapevolezza - forse infantile, ma necessaria - che gli uomini insieme costruiscono la storia dell'oggi con l'arma del futuro. Tra l'essere (stato?) un intellettuale impegnato politicamente e l'ultimo rifugio - disincanto o necessaria distanza storica - nella Venezia rinascimentale si rappresenta il suo caso nell'Italia di questi anni. Nel fosso buio del rivoluzionario deluso Marat, per uscire ci si può aggrappare solo ai propri capelli. Tafuri scopre una personale salvezza nel passato, nell'intelligenza, nell'erudizione. Non ricorda più  la sua stessa speranza di progetto.
 

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Pubblicato originariamente su

Domus
Editoriale Domus, Milano. Direttore V.M.Lampugnani/F.Burchardt.
Sez. Libri: Gianmario Andreani

Antonino Saggio
IL PROGETTO STORICO DI MANFREDO TAFURI
Domus, n. 773, luglio agosto 1995 (p. 103-104).

 

La pubblicazione cui si fa riferimento è

Il progetto storico di Manfredo Tafuri,
"Casabella" gennaio 1995
 
 
 

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